Ex detenuti che diventano "tutor" degli adolescenti. Succede anche questo grazie al teatro. Il carcere di Milano-Opera diventa uno Stabile a tutti gli effetti: 350 posti in cui si mescolano detenuti e spettatori "civili".
Sbarre, cancelli, controllo polizia e percorsi guidati per chi partecipa, ma quando si apre il sipario le differenze si abbattono. E' merito di Opera Liquida che lavora dal 2008 con il laboratorio teatrale dei detenuti di media sicurezza. Un Festival con quattro appuntamenti di teatro comico di impegno sociale, nel contesto di "Prova a sollevarti dal suolo", in cui quattro artisti presentato ciascuno il proprio spettacolo. Alla sua terza edizione, il Festival è coordinato e promosso dalla Direzione della I Casa di Reclusione Milano - Opera e dall’Associazione Opera Liquida, compagnia teatrale residente presso lo Stabile in Opera, grazie al sostegno di Fondazione Cariplo, Regione Lombardia e Comune di Milano.Ne parliamo con Ivana Trettel, direttore artistico del Festival.
Che progetto è questo del festival, come nasce?
Negli anni abbiamo prodotto spettacoli originali scritti dagli attori reclusi, con il mio montaggio drammaturgico e scenografie e costumi preparati dagli studenti della Naba - Nuova Accademia di Belle Arti. Del gennaio 2013 l'incarico del Direttore della Casa di Reclusione Milano Opera, dott. Giacinto Siciliano, di aprire la sala al pubblico civile. Incrociare poi il supporto nel 2014 di Fondazione Cariplo ha dato il via al progetto, permettendoci di assumere stabilmente due attori ex reclusi che continuano a lavorare con me e ad articolare una serie di progetti, tra cui lo "Stai all'occhio", un progetto di prevenzione dei comportamenti a rischio nei giovani, in cui sono gli ex detenuti i tutor finalmente ascoltati dagli adolescenti, perchè "la sanno lunga".
Qual è il valore aggiunto di un progetto del genere?
Il Festival è una presa in carico di responsabilità, dalla compilazione dei fogli Siae, all'allestimento della mostra, dal supporto tecnico audio, luci alla biglietteria. La compagnia è autonoma, oltre che essere protagonista artistica con la messa in scena nel festival di novembre.
D'altro canto, il carcere è un luogo rimosso dalla coscienza civile; quando sento dire "buttiamo la chiave" rabbrividisco, perchè la chiave la paghiamo tutti. Il detenuto è un costo sociale, il recidivo anche peggio. Farsi carico dei percorsi di reinserimento, come in molti paesi del Nord Europa, è in primis un abbattimento di costi.
Tanti pregiudizi, quindi...
Il pregiudizio blocca molto oggi i percorsi degli ex detenuti sul territorio. Condividere insieme, detenuti e società civile, un momento culturale, credo possa essere un piccolo mattone, verso la costruzione di una mentalità più accogliente, che certo non può essere legiferata, ma necessita di processi culturali di cambiamento complessi.
Quali gli ostacoli incontrati?
Gli ostacoli riguardano il decentramento della sala, la compilazione di un modulo di iscrizione 3 giorni prima della messa in scena. Spesso viviamo tempi frenetici, in cui pianificare le serate diventa complesso. Devo dire poi che grandi sono gli sforzi organizzativi del personale di Polizia Penitenziaria, che ci supporta con grande professionalità.
E le reazioni in sala?
C'è un'atmosfera speciale al Festival. Di grande emozione. I detenuti sono molto allegri. Ilir lo scorso Festival mi ha detto "Ivana, erano 7 anni che non uscivo dalla cella dopo le 19, per me, stasera, andare tutti insieme a teatro è stato come fare una passeggiata sotto le stelle". Credo che questa frase riporti un po' il senso di quello che stiamo facendo. Il pubblico esterno percepisce un po' l'emozione di entrare in un carcere. Certo, è forse più guardingo, ma quando si apre il sipario, tutte le differenze si abbattono e la sala vibra all'unisono. Applausi, risate, commozione, standing ovation.
Come si fa a sollevarsi dal suolo, nel caso di un detenuto anche a lungo periodo?
Dico sempre ai miei attori che il tempo della pena non può essere un tempo sospeso. La vita scorre, ovunque tu ti trovi. Il tuo punto di vista fa la vera differenza. A questo proposito vi cito Orazio, entrato in carcere a 18 anni; oggi ne ha circa 35 e non ha ancora finito. Si è diplomato geometra in carcere. Ha incontrato il teatro, si è iscritto a Lettere indirizzo Teatro. Ha fatto un paio di esami andati benissimo. Per anni è stato il mio assistente in laboratorio e poi è andato in articolo 21 (lavora all'esterno e rientra in carcere la sera, ndr).
Cosa può imparare un "civile" da chi affronta un percorso come la detenzione?
Che forse non è il giudizio la miglior guida ai nostri pensieri. A volte trovo semplicistica l'affermazione "a me non sarebbe potuto accadere". Le prospettive, le condizioni, sono molti i fattori che determinano il valore delle persone. In questi anni io ho trovato molto valore nel carcere. Trovo che sia uno spreco assoluto per la società non pensare di "riutilizzarlo". Una volta, nel 2012, mio figlio Sebastiano, allora di 7 anni, al Carroponte, confuso in un pubblico di 1200 persone, alla fine dello spettacolo, quando abbiamo mangiato la pizza tutti insieme, mi ha detto: "Mamma, il detenuto fa paura, i tuoi no". Questa è la distanza che passa tra il preconcetto e l'incontro con l'essere umano. Questo forse il dubbio che ci piacerebbe instillare.